Piede piatto: i problemi nascono quando c’è dolore e instabilità

Tra le problematiche che colpiscono il piede, una delle più comuni è la sindrome pronatoria, che nel linguaggio comune viene chiamata “piede piatto”. Si tratta di una patologia multifattoriale, causata cioè da alterazioni congenite – presenti dalla nascita – e da fattori ambientali. La patologia si presenta con alterazioni ossee, articolari e tendinee, e si manifesta di solito con dolore e disfunzione, se non addirittura rottura, del tendine tibiale posteriore, il “filo” collegato al sistema nervoso centrale che ha il compito di regolare il corretto funzionamento del piede.

Ne parliamo con il dott. Luigi Manzi, responsabile della chirurgia del piede e della caviglia che a Bergamo svolge la sua attività in Humanitas Medical Care Bergamo ed Humanitas Castelli.

Dottor Manzi, perché si parla di “piede piatto”?

«La patologia è causata da una alterazione di alcune articolazioni del piede che spesso comportano anche una disfunzione del tendine tibiale posteriore. Per questo il tallone tende a deviare verso l’esterno e vengono ad alterarsi la conformazione dell’arcata mediale, che si traduce in un aumento dell’impronta sul terreno, visibile ad esempio quando si cammina sulla sabbia. Bisogna sottolineare che non sempre questa condizione può essere considerata una vera e propria patologia. Ci sono molti esempi di persone che hanno un piede piatto senza subire disfunzioni. Basti pensare, per fare un esempio, al velocista giamaicano Usain Bolt, l’uomo più veloce del mondo. Il piede infatti ha una funzione dinamica e deve essere fisiologicamente piatto nella fase di appoggio per “ammortizzare” il peso del corpo e diventare cavo nella fase di spinta per massimizzare la forza di spinta del tricipite surale. I problemi dovuti a questa anomala conformazione del piede sorgono solo quando la sindrome diventa sintomatica e quindi patologica, perché vengono a mancare i meccanismi di compenso e si generano dolore e instabilità».

Come viene diagnosticato il “piede piatto”?

«Lo specialista ortopedico è in grado di diagnosticare un “piede piatto” semplicemente osservando il paziente mentre cammina a piedi nudi. Il piede piatto rappresenta una condizione fisiologica nel bambino fino a circa 8 anni. Dopo questa età tende a correggersi fino al termine dell’accrescimento. L’uso di plantari e scarpe ortopediche nel bambino sono ormai in disuso in quanto è stata dimostrata la loro inefficacia nella correzione del piattismo. Assumono un ruolo nella sindrome pronatoria sintomatica dell’adulto per alleviare la sintomatologia. Il percorso terapeutico che fa seguito alla diagnosi viene invece impostato grazie all’ausilio di una radiografia del piede in carico, eseguita cioè con il paziente in posizione eretta. Come esami di secondo livello possono inoltre essere eseguiti la risonanza magnetica o la tomografia computerizzata, indagini che permettono esami più accurati ma che, essendo eseguiti con il paziente sdraiato, a volte non riescono a fornire indicazioni precise quanto la stessa radiografia perché il piede non è nella posizione di “lavoro” che lo caratterizza quando è appoggiato».

Come può essere curato il “piede piatto”?

«Nel paziente che non è candidabile o che rifiuta l’intervento chirurgico, l’utilizzo dei plantari, associato a terapie fisiche come ad esempio la Tecarterapia e a farmaci antinfiammatori può aiutare a trovare un compenso e quindi a tenere sotto controllo la sintomatologia. Può, in poche parole, aiutare le articolazioni e i tendini sofferenti a lavorare in maniera più corretta dal punto di vista biomeccanico, senza però risolvere il problema all’origine. Questo obiettivo può essere raggiunto solo con un intervento chirurgico, la cui tipologia varia a seconda della deformità in atto, dai tendini interessati, dal fatto che le articolazioni coinvolte siano più o meno degenerate e soprattutto dall’età del paziente. Fino ai 12-13 anni, infatti, è possibile eseguire un intervento mininvasivo, sfruttando la crescita residua del piede. Nell’adulto, invece, l’intervento mira alla correzione di tutte le deformità per ottenere un piede “plantigrado”, nel quale, in pratica, l’appoggio del piede sia fisiologico».

Quali sono i tempi di recupero per un intervento chirurgico per “piede piatto”?

«I tempi di recupero variano a seconda del tipo di intervento. Per semplificare, nel bambino verrà posizionato dopo l’intervento un gesso sul quale si può appoggiare tutto il peso del corpo. Il gesso verrà poi rimosso a 15 giorni. In seguito all’intervento nell’adulto, invece, il paziente deve indossare uno stivaletto gessato per un periodo di circa 4 settimane, sul quale può appoggiare il peso del corpo già dal giorno seguente all’l’intervento. Dopo 45 giorni dall’intervento chirurgico il paziente può tornare a guidare mentre per le attività sportive i tempi sono un po’ più lunghi: per quelle a basso-medio impatto devono essere trascorsi almeno 50 giorni e per quelle “da contatto” almeno 90 giorni dall’esecuzione dell’intervento».

Ortopedia e Traumatologia
Dr. Luigi Manzi

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