Finora, in presenza di malformazione e quindi di malfunzionamento dell’articolazione dell’anca, l’unico intervento valido e risolutivo per restituire una qualità di vita ottimale al paziente, oltre che per far scomparire il dolore, è stato il ricorso alla protesi.
Ma oggi in molti casi, soprattutto se interessano le persone giovani, è possibile risolvere questo problema intervenendo con tecniche di chirurgia conservativa.
Abbiamo chiesto al dottor Guido Grappiolo, responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia dell’Anca e Chirurgia Protesica in Humanitas, quali sono le novità d’intervento in questo campo.
Perché la protesi non rappresenta una soluzione definitiva?
“Certamente le protesi hanno consentito una qualità di vita migliore a un enorme numero di persone, destinate altrimenti a forti dolori e difficoltà di movimento, ma bisogna considerare che, a oggi, esse hanno ancora una durata limitata (le migliori protesi sono sopravvissute tra i 15 e i 30 anni senza fallimenti)”, afferma il dottore. Inoltre, è ancora da dimostrare che le nuove soluzioni, molto più promettenti in base ai test di laboratorio, possano durare l’intero arco della vita, in particolare nelle persone più giovani che si muovono molto. In questi casi “può essere necessario ripetere l’operazione per cambiare la protesi anche diverse volte nell’arco della vita, con il rischio, fra le altre cose, di indebolire eccessivamente le strutture ossee che la devono supportare”, precisa l’esperto.
In quale altro modo si può intervenire sul malfunzionamento dell’anca?
“L’obiettivo è trovare le soluzioni più adatte per il paziente, tenendo conto della sua età e della gravità della situazione”, spiega il dottor Grappiolo. In generale, per il trattamento delle patologie degenerative dell’anziano può essere sufficiente la protesi, che garantisce efficienza per un numero adeguato di anni. Mentre, nel giovane, la protesi è indicata solo nei casi estremi, lasciando spazio al trattamento conservativo proprio per evitare ripetuti ricambi che talvolta hanno un prezzo in termini di invalidità.
Ci può fare un esempio?
“Gli interventi effettuati in età pediatrica consentono di correggere le malformazioni maggiori prima che causino danni irreparabili. È il caso, per esempio, dei pazienti affetti da epifisiolisi – spiega il medico – nei quali l’anatomia è corretta ma la testa del femore tende a scivolare rispetto al collo dell’osso, provocando deformità e dolore. Se ci si accorge tempestivamente di questa situazione è possibile intervenire fissando la testa del femore con una serie di fili particolari che ne impediscono la caduta”.
Quali sono le principali tecniche di chirurgia conservativa e quando si utilizzano?
A seconda della gravità del difetto, le tecniche di chirurgia conservativa si possono svolgere essenzialmente con due modalità: in artroscopia e in chirurgia a cielo aperto.
L’artroscopia è utilizzata per le correzioni lievi, per rimodellare piccoli difetti di forma dell’osso. Ci sono casi di “pinzamento”, che si verificano quando le estremità dell’acetabolo si sono sviluppate eccessivamente, impedendo il completo movimento del femore. Esistono anche situazioni dove la testa del femore non è perfettamente sferica e presenta una parte più prominente che nella rotazione danneggia l’articolazione. “In entrambi questi casi, in artroscopia è possibile rimuovere le porzioni in eccesso, restituendo la mobilità corretta all’articolazione”, precisa il dottore.
Quando, invece, questi difetti sono gravi o sono presenti entrambi (una situazione che riguarda il 70% dei casi) è necessario intervenire in chirurgia a cielo aperto. “Si tratta sicuramente di una tecnica più invasiva ma che permette un’ampia capacità correttiva e grande precisione”, afferma lo specialista.
E conclude: “Se un giovane paziente non ha il bacino allineato correttamente, con conseguenti forti dolori e difetti di deambulazione, un’operazione a cielo aperto consentirà di ricentrare il bacino, evitando così la protesi a quell’età e, soprattutto, permettendogli di condurre una vita del tutto normale”.
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