Chi affianca persone care che soffrono di patologie croniche importanti, disabilità e in particolare di disturbi cognitivi e comportamentali legati a demenze degenerative e ad altre patologie neurologiche, potrebbe trovarsi ad avvertire il così detto ‘burden caregiver’, cioè il ‘peso dell’assistenza’.
L’‘arte’ e la capacità del prendersi cura, infatti, in alcuni casi possono influire negativamente in chi affianca e accudisce una persona cara, generando un possibile disagio psicologico che porta ansia, depressione o anche malessere fisico e che si ripercuote inevitabilmente sulla qualità della vita.
Ne abbiamo parlato con la dottoressa Alessandra Massironi, neuropsicologa e psicoterapeuta in Humanitas Medical Care Varese.
Il burn out: come si manifesta
Secondo i dati ISTAT (2015) in Italia i caregivers sono 8 milioni e mezzo, di questi circa 7 milioni sono costituiti da carer familiari che si occupano dei propri cari, mentre circa 1 milione è rappresentato da figure esterne di tipo professionale. “Un dato che porta a riflettere sull’impatto sociale comportato dalle patologie croniche e dalla non autosufficienza”, ha detto la dottoressa.
Questo ruolo svolto dal familiare è accomunabile alle professioni di aiuto in sostanza, ma solo negli ultimi anni l’attenzione, anche a livello scientifico ed istituzionale, si è centrata sullo stress in cui incorre il familiare nello svolgimento di questa funzione.
Ne è dimostrazione il fatto che sempre più frequentemente i percorsi di cura ed assistenza sanitaria e sociosanitaria del paziente, includano il coaching ed il supporto psicologico dedicato al caregiver, variabile da non trascurarsi in ordine all’efficacia ed all’adesione ai piani terapeutici da parte del malato. Di prassi oggi la valutazione del malato è completata da quella del livello di stress e del carico assistenziale del suo familiare attraverso l’adozione di strumenti standardizzati, quali ad esempio il questionario CBI, Caregiver Burder Inventory.
I soggetti più a rischio
Il burn out è più probabile in persone che senza neanche accorgersene finiscono per esistere solo in funzione della patologia del proprio caro, in coloro che si fanno carico da sole e/o che non usufruiscono di risorse di supporto alternative, in coloro che trascurano altre attività o se ne disinteressano e che si trovano a riversare ogni energia e pensiero nella malattia del proprio congiunto.
I dati derivanti da ricerche sull’incidenza di burn out nei caregiver, vista l’eterogeneità delle situazioni, non sono univoci, ma già nel 2009 uno studio del Censis rilevava ad esempio come in prevalenza i soggetti più ‘a rischio’ siano donne di oltre 60 anni di età, che si occupano a tempo pieno del coniuge in fasi avanzate di malattia. “Esse – ha spiegato la dottoressa – non usufruiscono di supporti, hanno scarse relazioni sociali, qualche situazione conflittuale in famiglia, problemi di salute e sono molto provate sul piano psicologico”.
Secondo i dati raccolti rappresentano il 50% del campione di caregivers coinvolti nelle ricerche. Il 19,1% dei caregivers in burnout sono le figlie ‘multiruolo’, impegnate su più fronti oltre che nell’assistenza al malato, con il quale in genere non convivono: “si sentono affaticate, sovraccariche di responsabilità e il loro impegno costante ha una ricaduta negativa sul piano psicologico e delle relazioni sociali”.
Infine, una minima percentuale è costituita dai neo-caregivers e dai caregivers supportati. “Questi ultimi si dedicano a malati relativamente autonomi, senza particolari cambiamenti nello stile di vita – ha aggiunto la dottoressa Massironi -. Si tratta di figli o nipoti del paziente, con età compresa tra i 21 e i 35 anni e coinvolgimento modesto nella sorveglianza di una persona ancora ai primi stadi di malattia”.
“Da questo risulta parecchio chiaro che supportare e rafforzare il caregiver familiare sin dagli esordi della malattia del proprio caro accompagnandolo per tutte le fasi, è fattore preventivo più importante rispetto all’insorgenza di fenomeni di burn out”.
Come riconoscere il burn out
Il termine burn out indica un insieme di sintomi, indici di malessere psicofisico cronico e generalizzato: “di base la persona si trova in uno stato in cui non riesce più a far fronte alle richieste provenienti dall’esterno, che determina senso di impotenza, colpa, solitudine, delusione, disistima di sé, rabbia, disinteresse e demotivazione verso tutto”, ha spiegato la dottoressa. “Ciò che rende insidioso il fenomeno è che nella maggior parte dei casi il soggetto non ne è consapevole, poiché non riesce a leggere ciò che è sotteso alla condizione di malessere e pertanto non riconoscendo questo come un problema, non cerca nemmeno soluzioni”. Per tale ragione i dati di ricerca evidenziano una sottostima del fenomeno e risultano eterogenei. Tra i ‘sintomi’ anche ansia, insonnia, depressione, calo delle difese immunitarie con conseguenti problematiche di salute, senso di stanchezza fisica e mentale, senso di inutilità, apatia, irritabilità, riduzione del livello delle performances, insoddisfazione, frustrazione.
Come prevenire: in Humanitas un percorso integrato per paziente e caregivers
Il burn out, ovviamente, non si verifica necessariamente in tutte le situazioni in cui una persona si trovi a dover accudire qualcuno del nucleo familiare, ma è bene attrezzarsi per prevenire.
“L’azione sul piano specialistico rivolta al caregiver deve essere attività già nella fase di diagnosi della patologia del proprio caro – ha detto Massironi -: è bene condividere un piano di supporto psicoterapeutico ed accompagnamento del familiare che gli fornisca gli strumenti, quasi una ‘cassetta degli attrezzi’ per vivere con minore peso quanto comportato dall’assistenza ad un malato cronico”.
Per approccio integrato intendiamo “rispetto al malato, un costante monitoraggio psicologico attraverso colloqui di sostegno con il paziente cronico, dalla diagnosi allo svilupparsi del percorso di cura, un presupposto per alleggerire di riflesso il caregiver dalla complicanze sul piano emotivo dell’interessato – ha detto la dottoressa -. In particolare, in riferimento specifico alla sfera delle demenze l’intervento integrato consta di diagnosi neuropsicologica, counseling ai caregivers per la gestione della quotidianità, training di riabilitazione cognitiva, supporto psicologico in tutte le fasi della malattia”.
Rispetto ai percorsi di supporto psicoterapeutico dedicati al familiare, invece, “avere uno spazio per sé, elaborare la situazione, avere indicazioni utili per la gestione della relazione con il proprio congiunto e delle eventuali alterazioni psichico comportamentali demenza-correlati, solleva e costituisce una forma di empowerment individuale. In ultima analisi, se sta bene il caregiver sta meglio anche il paziente”.
“Fare psicoterapia sia con malato che caregiver, con un affondo in merito al nostro tema del burn out del familiare, significa agire per costruire strategie più funzionali, modi di ‘stare’ più utili all’interno dell’esperienza che si vive. Nei casi di rischio o di effettivo burn out del familiare, conoscere meglio ciò che si ha davanti, comprendere, saper gestire è la base per non annullarsi”.
Per questo il setting psicoterapeutico dunque, in ottica di approccio integrato, non riguarda esclusivamente le problematiche connesse alla situazione critica ma diventa ‘una palestra’ di lavoro su di sé come individui finalizzato all’espressione del potenziale.
In conclusione, “il caregiver non deve essere considerato e considerarsi come un ‘attore’ a sè stante. Attivare un circuito virtuoso curanti- specialisti- familiari- pazienti- sistema sociale, potenzia notevolmente gli effetti proficui dei percorsi di cura”, ha conlcuso la dottoressa.
Dunque anche la malattia, che per definizione è legata al concetto di sofferenza, può diventare meno pesante se sussistono motivazione e consapevolezza nel farsi aiutare e se si lavora in team.
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